Parole da evitare: femminicidio

Questo articolo è del 19 settembre 2017. Lo ripropongo perché la particolare forma di cecità che descrive continua a peggiorare.

Già che ci sono, mi permetto di dire che le donne in quanto donne non vanno “tutelate” come se fossero panda.

Le opere d’arte si tutelano, gli animali in via di estinzione si tutelano, le proprietà a rischio si tutelano, i minorenni si tutelano, e anche i minus habentes ecc. Non si tutelano le donne perché, poverine, sono donne. Le donne, secondo i casi, vanno sostenute o aiutate o protette o anche liberate, e certo  desideriamo essere rispettate, sempre; ma, per favore, non “tutelateci”. E pensateci tre volte prima di scegliere le parole da impiegare. 

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“Femminicidio” non è solo una parola che evito.

“Femminicidio” è una parola che chiunque dovrebbe evitare attivamente.

Fino all’altroieri avrei detto che era da evitare perché, per come è usata, non significa niente; io non ho nemmeno bisogno di evitarla perché non mi verrebbe mai in mente di usarla.

Oggi dico che va evitata perché distrugge la capacità di osservare la realtà; e lo dico perché ne ho avuto la dimostrazione lampante nelle parole di una donna che è presidente di non so che associazione che aiuta le donne vittime di violenze, la quale al telegiornale di domenica (o era sabato? dovrò cominciare a girare con un taccuino per gli appunti…) ha detto che “gli uomini uccidono le donne perché sono donne”.[1]

Be’, no, gentile signora, questo non è vero. Le è sfuggito un particolare fondamentale e posso solo pensare che ciò sia avvenuto a causa dell’uso cretino di una parola che, per il suono e gli elementi costituenti, indica una certa cosa mentre si pretende di usarla per indicarne un’altra. È una specie di magia.

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Gli uomini in genere non uccidono le donne perché sono donne. Gli uomini in genere uccidono le donne perché non sono le LORO donne. Sempre ne sono attratti perché sono donne; ma in genere le uccidono perché sono donne che non li vogliono. Basta ascoltare un po’ di cronaca per rendersi conto che è così (= capacità di osservare la realtà).

Le uccidono perché li hanno lasciati, e dunque non sono più le loro donne. Le uccidono perché hanno un certo grado di libertà che essi non tollerano, in quanto le rende meno loro. Le uccidono per motivi psicologici poco chiari, che però c’entrano sempre col fatto dell’abbandono. In qualche raro caso le uccidono perché sono delle insopportabili megere. Non è vero infatti che tutte le vittime di qualunque tipo siano brave persone meritevoli di tenerezza, come una certa narrazione superficiale tende a farci credere (basta pensare che se qualcuno uccide un coetaneo, la vittima è un ragazzo o ragazza, mentre l’omicida è sempre caratterizzato come adulto… e siamo infine arrivati all’idiozia di definire “giovanissime” le vittime ultratrentenni).

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Ma consideriamo solo le donne uccise per senza essere delle megere. Resta il fatto che non sono state uccise in quanto semplicemente donne, ma perché per l’assassino non erano “la mia donna”.

Ricordo un solo caso, in tanti anni che sento usare questo termine, in cui un uomo ha effettivamente accoltellato delle donne solo perché erano donne, ed è un caso recentissimo: è avvenuto qualche settimana fa, per strada, uno sconosciuto contro delle sconosciute. L’ha detto il telegiornale, ma solo una volta e ovviamente non l’ha definito “femminicidio”, mentre era uno di quei rari casi in cui la parola avrebbe avuto un senso.

Ce n’è un altro, di casi simili, ed è l’aborto selettivo delle femmine ma da noi non usa – qui selettivamente si abortisce per altri motivi, non per il sesso – e nessuno ne parla.

Normalmente, in genere, di solito, i “femminicidi”, nel senso degli uccisori,[2] non se la prendono con altre donne se non quella che hanno perduto. Solo una volta ricordo che uno ha ucciso anche un’amica della ex moglie. Un’altra volta, una ragazza è rimasta uccisa per difendere la sorella, ma non possiamo dire che l’assassino fosse andato a cercare lei. È vero che io non ricordo i nomi di persone e città che vengono detti né le testuali parole, ma le vicende invece sono in grado di ricordarle ad anni di distanza. (Purtroppo, senza nomi, non è facile e a volte neanche possibile rintracciare le vicende. Dal che possiamo dedurre l’importanza di avere a disposizione i nomi giusti. Devo proprio farmi un taccuino.)

È raro che un “femminicida” uccida donne diverse dalla “non-mia” e in genere ci sono motivi collaterali se lo fa.

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Ora, ho detto che è una specie di magia. Ma dov’è la magia? Nella nostra testa. Le parole danno forma al pensiero: chiunque l’abbia detto per primo, era uno che sapeva quel che diceva.

Se sentiamo una parola come “femminicidio”, pensiamo che sia l’uccisione di una donna. Ci hanno insegnato che le donne non bisogna chiamarle “femmine”, però all’asilo e ancora a scuola ci dividevamo in “maschi e femmine”, quindi abbiamo chiaro che in fin dei conti le donne sono femmine, anche se non tutte le femmine sono donne, ovviamente. Così, quando sentiamo una parola del genere, il nostro cervello ha subito chiaro che significa l’uccisione di una donna. Non è come “omofobia” che di suo significa l’esatto opposto di ciò che vuole significare; il “femminicidio” può essere solo l’uccisione di una femmina umana perché non si usa -cidio per gli animali.

Chi la usa, però, non la intende così. Chi usa questa parola intende con essa un particolare tipo di uccisione di donna. Per questo nessuno parla di “femminicidio” se un pazzo attacca delle donne perché sono donne o se in qualche Paese straniero le bambine vengono abortite selettivamente.

E qui si aprono due possibili scenari, come dicono da qualche parte.

Uno scenario è che riusciamo a mantenere separato il significato apparente del termine da quello velleitario – non posso dire “convenzionale” perché tutto il linguaggio è convenzionale; passi per i nomi neutri ma l’impegno per dare a un termine il significato che evidentemente non ha, solo velleitario lo posso definire.[3]

L’altro scenario è che avvenga nel cervello di chi ascolta un cortocircuito, per cui si comincia a pensare che il “femminicidio” è l’uccisione di una donna perché è una donna. Giusto ciò che è accaduto a quella signora di cui dicevo prima. Se è accaduto a lei, che ne vede ogni giorno, figuriamoci agli altri.

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Se si comincia a pensarla così, allora le donne cominciano anche a pensare che tutti gli uomini siano dei potenziali assassini, il che non è vero.

Da un punto di vista assoluto, naturalmente, tutti gli esseri umani, maschi e femmine, sono dei potenziali omicidi, perché non sai mai che cosa ti può succedere finché sei vivo e magari capiterà che ti trovi ad ammazzare qualcuno. Da un punto di vista relativo, la maggior parte delle persone, maschi o femmine, non ucciderà mai nessuno, così come la maggior parte delle persone non ha mai ucciso nessuno in tutta la storia del mondo.

In più, bisogna considerare che un assassino non è semplicemente un omicida: un assassino è uno che è andato lì con la precisa volontà di uccidere, mentre l’omicidio è genericamente l’uccisione di un essere umano, che può anche essere involontaria.[4] Non ci sono elementi reali per pensare che tutti gli uomini, nel senso di esseri umani di sesso maschile, siano potenziali assassini.

Se le donne cominciano a pensare così, però, siccome sono le donne che fanno gli uomini (in tutti i sensi), gli uomini da parte loro cominceranno a sentirsi un peso sulle spalle, che diventerà via via più vero e più pesante.

Risultato: una sempre maggiore divisione tra uomini e donne; ma forse è meglio dire “tra maschi e femmine”, perché a lungo andare non ci sarebbero più uomini e donne degni del titolo; rimarrebbe solo il dato biologico, che è impossibile da eliminare.

Fino all’altroieri intuivo che potesse finire così ma avevo una certa fiducia nella sanità mentale del popolo umano.

Dopo aver sentito quella signora, ho capito che forse la mia fiducia non è tanto ben motivata. Le parole agiscono anche senza che ce ne rendiamo conto, altrimenti non si spiega che una in quella posizione lì debba essersi fatta un’idea tanto sbagliata.

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Oddio, una spiegazione c’è, ed è la medesima che giustificherebbe l’invenzione della parola stessa: potrebbe essere una cosa voluta. Quella signora non mi pareva un genio del male. Rispetto a chi ha inventato il termine, però, non mi posso pronunciare, perché non so chi sia e potrebbe essere tanto un ignorante da Oscar quanto un professor Moriarty della manipolazione verbale.

Non conoscendo la causa, non starò a perderci tempo. L’effetto però è sotto gli occhi di tutti; nelle orecchie, per la verità, ma chi sono io per buttare nel cestino una metafora dei nostri padri?, come direbbe Dickens.

Quel che sicuramente posso fare è evitare di usare questo termine. E dire il perché.

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[1] Le virgolette “ ” non indicano una citazione testuale ma sostanziale; per una citazione testuale userei le virgolette a caporale « », ma io sono normalmente incapace di ricordare le parole testuali.

[2] Femminicidio al plurale diventa femminicidii o femminicidî; ultimamente la pigrizia ci ha fatto cassare queste forme in favore di femminicidi; questo però è anche il plurale di femminicida. Ne possiamo dedurre che l’ortografia qualche volta ha una funzione specifica, oltre ad essere un fatto estetico.

[3] Velleità al massimo grado è proprio la parola “omofobia” che citavo prima. In origine homophobia indicava l’irrazionale paura di essere considerati finocchi (che in inglese si dice homo, come abbreviazione di homosexual) mostrata da certi uomini; la inventò uno psicanalista americano che aveva notato questa stramba paura. Non so se lo psicanalista fosse solo ignorante, non essendo un grecolatino, o volesse indicare che non era una cosa da prendere troppo sul serio: infatti, è come se in italiano dicessimo “gattofobia” anziché ailurofobia per indicare che uno ha paura dei gatti; lo dici a livello colloquiale, non certo come termine scientifico! Sta di fatto che, secondo le regole corrette dell’etimologia grecolatina, la sua parola significa “paura irrazionale di ciò che è uguale”, non “paura irrazionale di chi è diverso”, come poi qualcuno ha preteso di usarla. Quando la convenzionalità (che nel linguaggio è inevitabile) viene spinta all’estremo diventa velleità. E crea una gran confusione.

[4] Per questo la legge parla di omicidio volontario, preterintenzionale, colposo; sono tutte sfumature che dipendono dalla volontà o meno di uccidere.

Che cos’è la verità? Un tonno?!

Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”.
Rispose Gesù: “Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato
e per questo sono venuto nel mondo:
per rendere testimonianza alla verità.
Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”.
Gli dice Pilato: “Che cos’è la verità?”. […]
Vangelo di Giovanni, capitolo 18, versetti 37-38

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Non ho più molta voglia di scrivere, ma bisognerà che me la faccia venire, perché davvero non se ne può più di certe baggianate.

Riprendiamoci le parole.

Le grandi parole della vita: verità, passione, intelligenza, amore odio, violenza, tenerezza… riprendiamole per la vita. Non lasciamole in mano a pubblicitari, giornalisti, politici, scienziati, tutta gente che non ha interesse per la realtà nel suo insieme, ma solo per i quattro fatti che ha sotto al naso: il tale virus, il tale prodotto, il tale evento, la tale alleanza…

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Non mangio tonno; se però lo mangiassi, di sicuro non comprerei il “tonno-verità” che imperversa negli spazi pubblicitari di questi giorni insieme alla nuova canzoncina della Tim, altra azienda che schiverei di corsa per la pretenziosità degli spot, se non l’avessi già scartata da anni perché il servizio è pessimo.

Non approvo quel che è successo al Congresso di Washington; avrei però TANTO voluto che qualche politico sottolineasse la portata dell’assalto con parole sue e originali, anziché dir tutti le stesse cose e magari riciclarle da altre occasioni. La presidente Von der Leyen “non vede l’ora di lavorare con Biden”? Ma chi se ne infischia, signora; anzi, è proprio il tipo di affermazione che, oltre ad essere riciclata e non pertinente al problema, fa girar le scatole agli svitati. Nel frattempo, chi ricorda che anche quattro anni fa c’erano manifestazioni per “rovesciare l’esito elettorale”? Il genere di violenza di ieri cancella il ricordo di quegli eventi, che non erano percepiti come violenza e invece lo erano.

Le macchine non sono “intelligenti”, anzi, sono stupide per definizione, programmate per fare certe cose e non altre. I virus, poi, non sanno nemmeno riprodursi con mezzi propri, trattarli da strateghi del Pianeta Patologia mi pare fuori luogo.

I morti per sciagure varie non sono sempre “solari”, neanche se hanno vent’anni, neanche se erano brave persone che si facevano un mazzo così per la famiglia. E tanto meno lo erano se si drogavano, che è un atto piuttosto saturnino.

La “passione” non è il sesso. C’entra anche con il sesso, qualche volta, e qualche volta no. Però c’entra con tante altre cose che sono perfino più importanti ed è inaccettabile che questo termine si impieghi con un significato univoco che non è nemmeno il principale. Si rischia di non capire più neanche Il Canto di Natale di Dickens.

Le nuove scoperte a Pompei non sono un “riscatto” per il nostro Paese, visto che non è colpa nostra se i poveretti rimasero seppelliti; così come il nuovo ponte di Genova non è un “riscatto” per la città, che non avrebbe mai voluto veder crollare l’altro e morire tanta gente.

I calciatori non sono “eroi” perché giocano bene a pallone e hanno successo o fanno sentire orgogliosa un’intera città. L’eroismo col successo non va mai a braccetto: abbastanza spesso un vero eroe o una vera eroina muoiono nel far qualcosa e morire non è proprio un successo rispetto all’obiettivo di diventar vecchi e avere dei nipotini.

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Le parole crescono e assumono nuovi significati, perché è la loro natura; ma dovremmo fare del nostro meglio per evitare che si riducano o che crescano nella maniera sbagliata. Anche figli e nipoti crescono, perché è la loro natura, ma noi cerchiamo di fare del nostro meglio perché non crescano delinquenti o perché non si ammazzino buttandosi per gioco giù da un tetto.

Salvaguardare le parole è compito di tutti. Se ci vuole un villaggio per allevare un bambino, ci vuole un bel po’ più di gente per allevare una lingua. E dei criteri, sani, in entrambi i casi. Bisogna che ci diamo da fare tutti quanti.

La cosa seccante è che a me tocca senz’altro darmi da fare, visto che ho posto il problema.

Dati e notizie

Le ipotesi non sono dati e molti dati non sono notizie.

Esempio eclatante: oggi, secondo certi giornali e telegiornali, il contagio starebbe rallentando perché ci sono meno contagiati di ieri.

Ma guardate quel che è successo in Cina e sta succedendo in Corea del Sud. Può succedere che a un certo punto ci siano meno contagi del giorno prima ma non vuol dire niente, perché poi ricominciano a salire. Continua a leggere “Dati e notizie”

E perché mai “pre-danteschi” anziché “post-laudesi”?

Una cosa che detesto fin dal ginnasio è questa: che se tu hai una certa idea e un altro l’ha avuta prima di te, la tua idea non è tua originale ma “tu la pensi come il Tale”. Questo a volte è vero ma spesso è del tutto falso: in realtà due persone possono pensare la medesima cosa in maniera totalmente, o anche semi-totalmente, indipendente.

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Il mio primo incontro con questo singolare preconcetto risale, appunto, al ginnasio. Un giorno, mentre la professoressa di italiano ci parlava di Manzoni e di vattelapesca-che-cosa, io me ne uscii a dire “Ah, la pensava come me”.

Ora, dire che Alessandro Manzoni la pensasse come me era una sciocchezza, tenuto conto che è morto nel 1873. Naturalmente, l’espressione corretta sarebbe stata “Ah, la pensava come la penso io”, mentre quella modesta sarebbe stata “Ah, la penso anch’io così”. Ma non è che a quindici anni vai a scuola perché sai già tutto, no? Ci vai per imparare. La mossa giusta sarebbe quindi stata farmi notare che la mia espressione era sbagliata e che ce n’era almeno una corretta. Invece la mia insegnante (peraltro un’ottima insegnante) che fece? Mi replicò: “Casomai sei tu che la pensi come lui”.

Se questa replica me lo ricordo ancora oggi, è per la sua luminosa falsità.

Io potevo sicuramente pensarla come mio padre o mia madre, come mia nonna, come qualcuno dei miei zii o cugini più grandi, come i miei insegnanti delle medie… ma mi voglio rovinare, potevo anche pensarla come Luciano Rispoli e il professor Beccaria (benché non sono sicura che al tempo la Rai trasmettesse già “Parola mia”); mai e poi MAI, però, avrei potuto pensarla come Alessandro Manzoni, per l’eccellente e inaffondabile motivo che non lo conoscevo.

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Nei trentacinque anni successivi, il preconcetto del “non esiste un pensiero originale” mi si è fatto incontro più volte; l’ultima, oggi, in un articolo sulla lauda Ave donna santissima, che Laura Cioni dedica a Nostra Signora di Lourdes.

Nella lauda, dice Laura Cioni, «la quarta e la quinta strofa presentano, secondo alcuni critici, tratti predanteschi.

Quasi come la vitrera
quando i rai del sole la fiera
dentro passa quella spera
k’è tanto splendidissima,

stando colle porte kiuse
en te Cristo se renchiuse:
quando de te se deschiuse
permansisti purissima».

Traduco: Quasi come quando i raggi del sole trafiggono la vetrata (fiera, “ferisce”) e vi passa dentro quel raggio luminoso (spera: “‘na speratina di sole” è quando un raggio occhieggia di tra le nubi) che è così tanto splendente, mentre stavi con le porte chiuse Cristo si rinchiuse dentro di te; quando si dischiuse da te, tu rimanesti purissima (queste quattro righe si riferiscono alla verginità di Maria, prima del concepimento e dopo il parto).

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Prosegue: «In effetti l’immagine di Maria come vetrata attraversata dai raggi del sole, purissima sia nel concepire sia nel dare alla luce Gesù è concreta e insieme molto delicata e può ricordare i versi del terzo canto del Paradiso, in cui Dante paragona le anime beate poste in quel cielo alle orme leggere lasciate dal volto femminile “per vetri trasparenti e tersi”».

Chiaro che li può ricordare, visto che dicono la stessa cosa; non c’è niente di veramente strano in questo, è quasi più strana l’idea di una vetrata nel Milleduecento (ma non erano vetri come i nostri).

Quello che è strano, invece, è perché mai un critico letterario debba pensare che la lauda è predantesca e non che Dante sia post-laudese.

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Il Laudario di Cortona è del XIII secolo; non si conoscono le date esatte ma si ritiene che possa essere stato copiato tra il 1270 e il 1297, il che vuol dire che Dante potrebbe benissimo aver sentito, e perfino cantato, quella lauda.

Prima è venuta la lauda, poi è venuto Dante (nato nel 1265), poi il Paradiso. In altre parole, ognuno di noi, inclusi i geni, appartiene a una cultura che è più grande di lui.

Dante potrebbe aver conosciuto la lauda oppure no; ma di sicuro il compositore della lauda non conosceva Dante.

E allora perché quei critici devono esprimersi in un simile modo?

No, la risposta non è che i critici letterari non hanno una vita e ammazzano il tempo inventandosi cose per far tribolare gli studenti.

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Martedì 11 febbraio 2020
Memoria della Beata Vergine Maria di Lourdes

(nel senso dell’apparizione, naturalmente;
ché la Beata Vergine Maria è una sola
ed era di Nazaret, Galilea)

Attacchi “unilaterali” e “Yom Kippur worshippers”

A volte mi chiedo in che mondo vivo. Me lo sono chiesta, per esempio, quando qualcuno ha cominciato a parlare di “iniziativa unilaterale” della Turchia intendendo l’attacco che questa ha portato ai curdi in Siria.

Ma che vorrebbe dire “iniziativa unilaterale” quando si parla di un attacco in armi?

Si tratta di un ATTACCO, è OVVIO che sia una iniziativa unilaterale; altrimenti non lo chiameremmo attacco, lo chiameremmo duello.

Questa fa il paio con gli Easter worshippers di Mr. Obama & Ms. Clinton quando a Pasqua ci furono le stragi di cristiani a Ceylon.

Ci manca solo che sentiamo parlare di Yom Kippur worshippers a proposito della sinagoga di Halle e poi siamo a posto.