Si può iniziare una frase con “è”?

Ogni tanto qualcuno arriva qui chiedendosi se si possa iniziare una frase con il verbo “essere” in terza persona singolare: “è”.

Ormai si sa che che la domanda è sbagliata, ma soprattutto io mi chiedo il perché di una domanda simile. In italiano iniziare una frase col verbo “essere” in qualunque declinazione è una cosa normale.

Normale.

Normale vuol dire che si fa senza pensarci. Neanche ce ne accorgiamo. È normale avere due occhi o due gambe: se qualcuno ne avesse tre lo noteremmo subito. Se qualcuno ne ha solo uno o una, percepiamo che qualcosa non è al suo posto. O no? (Questo non c’entra niente col modo di trattare chi ha tre gambe o un solo occhio, chiaro.) Se però mi venisse un dubbio circa il numero di gambe comunemente assegnato in dotazione ai miei simili, basterebbe che guardassi.

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Sono andata al cinema con mia sorella.

Era una notte buia e tempestosa.

È stato fantastico.

Sei un vero idiota.

Sono arrivati, gli zii?

Fu solo al ritorno che scoprimmo che era esplosa una conduttura.

Erano tutti in piazza per vedere il passaggio della Millemiglia.

Sarei contenta di vederlo un’ultima volta.

Fossero tutti come te!

Sarò da voi alle cinque.

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Certo che si può cominciare una frase con “è”, esattamente come la si può cominciare con quasi ogni altra forma del verbo “essere”. È normale. Lo facciamo tutti quanti almeno una volta al giorno, direi.

È possibile (ho cominciato con “è”; quante mai volte l’avrò fatto in dieci anni?) che queste domande siano fatte da stranieri. Anche se in questo caso sarebbe più sensato indicare la lingua, rimane possibile che a fare quella domanda siano persone che non conoscono l’italiano dalla nascita. In questo caso una certa confusione è giustificata, perché può accadere che la capacità di osservazione sia ostacolata dal sentimento di estraneità.

MA… è anche possibile che sia la domanda di qualcuno che non ha chiara la distinzione tra grammatica e stile; vale a dire, svariati milioni di compatrioti.

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Per dirlo in maniera semplice e sommaria:

* la grammatica rappresenta le maniere di una lingua, che possono essere più e meno buone, aristocratiche o plebee, colloquiali o letterarie, ma comunque sono maniere legittime, che hanno una storia e hanno senso;

* le sgrammaticature sono le cattive maniere, quelle prive di senso, prive di attenzione per gli altri, sciatte, volgari; ma volgari nel senso di “rozze”, non nel senso del volgo;

* lo stile rappresenta le belle maniere, che mostrano una cura e un amore per ciò che si dice, come contenuto e come forma, che mostrano una tensione a far sì che gli altri capiscano quel che diciamo davvero;

* e ovviamente anche le belle maniere hanno la loro esagerazione, che è il manierismo. È il manierismo a far spacciare per regole grammaticali costruzioni che non lo sono affatto.

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Così, sto cogitando sull’opportunità di fare una serie sullo stile.

Solo che ci sto cogitando su da almeno quattro anni e questo, in genere, non è un buon segno.

Non mi sembra che ne valga davvero la pena, probabilmente; non con la pletora di linguaggio scadente che ci si riversa addosso dalla televisione e dai giornali, per non dir niente dei social media (dei quali, in effetti, non vale la pena dire granché).

Un mondo che non sa più usare le parole come nomi di entità precise e reali è un mondo destinato a scomparire e non sarò io a evitare che scompaia. Anzi, se dipendesse da me, forse gli darei una bella spinta.

Spiritualism, spiritismo

Una delle cose più insidiose per chi traduce da una lingua a un’altra – a qualunque livello, dalle scuole medie alla professione – sono i false friends, i falsi amici: parole che somigliano a quelle della nostra lingua madre ma che significano un’altra cosa. Un esempio classico è l’inglese patent, che significa “brevetto”; la patente di guida in inglese è driving license. Un altro è lo spagnolo aceite, che somiglia ad “aceto” ma è “olio”.

Mentre traducevo il Robert Browning di Chesterton, ho incontrato una coppia di f.f. che non avevo mai visto: la coppia spiritualism/spiritismo.

Il fenomeno che nacque negli Stati Uniti nella seconda metà dell’Ottocento e portò a ballare innumerevoli tavolini di qua e di là dell’Oceano, in inglese si chiamò subito e si chiama ancora spiritualism; in seguito nacque il termine spiritism per indicare una parte specifica dello spiritualism. Spiritualism rimane comunque il termine di riferimento generale in inglese.[1]

In italiano invece lo chiamammo subito “spiritismo”. Perché? Probabilmente perché “spiritualismo” era già il nome di qualcos’altro e, siccome si trattava di due cose differenti nel livello, se non proprio nel contenuto di esperienza, usare lo stesso nome avrebbe generato confusione.

spiritualismo

[da spirituale, con -ismo; 1816]

s. m.

* Dottrina filosofica della seconda metà dell’Ottocento che, in opposizione al positivismo e allo scientismo, riafferma la trascendenza divina, il carattere spirituale della conoscenza e, in taluni pensatori, anche della realtà | (est.) Ogni dottrina filosofica che teorizza il primato dello spirito sulla materia: lo spiritualismo di Platone. CONTR. Materialismo.

 

spiritismo

[dall’ingl. spiritism, da spirit ‘spirito’ con -ism ‘-ismo’; 1863]

s. m.

1 Sistema mistico-religioso fondato sull’interpretazione di fenomeni medianici e paranormali rilevati, per la prima volta, ad Hydesville, presso New York, nel XIX sec. | Movimento mondiale che derivò da tale sistema.

2 Ipotesi interpretativa dei fenomeni metapsichici e paranormali | Pratica delle sedute spiritistiche, nelle quali, attraverso il medium, si prende contatto con gli spiriti e si determinano fenomeni paranormali.

 

Per il contenuto di esperienza, in effetti, si potrebbe dire che lo spiritualismo “contiene” anche lo spiritismo, visto che lo spiritismo non è materialistico e lo spiritualismo si oppone appunto al materialismo. Ma questo non vuol dire che sia vero anche il contrario, cioè che i filosofi spiritualisti siano tutti anche spiritisti.

L’italiano è una lingua logica e puntuale; non è un caso che noi abbiamo le due parole “liberalismo” e “liberismo” mentre in inglese ce n’è una sola, liberalism (il che a volte crea effettivamente un bel casino). Non è una mancanza della nostra lingua o della nostra cultura, come tendono a pensare certuni. Al contrario, è una ricchezza. Come tutte le ricchezze, va gestita come si deve, altrimenti diventa esagerazione e ti rovina la vita.

Spiritualismo o spiritismo?

Useremo spiritismo, dunque, quando parliamo di medium, scrittura automatica e tavoli che ballano;

spiritualismo con l’iniziale minuscola se parliamo di Giovanni Gentile e dei suoi consimili (cioè filosofi);

se invece vogliamo parlare del fenomeno religioso che nacque nell’Ottocento (ed esiste tuttora), basato sulla comunicazione con gli spiriti, poiché l’inglese ha Spiritualism con la maiuscola, noi potremmo usare Spiritualismo con la maiuscola. Qui la confusione sarà evitabile solo grazie al contesto, perché anche lo spiritualismo filosofico a volte si indica con la maiuscola. Chesterton, però, nel Robert Browning parla sempre di spiritualism con la minuscola, cioè di spiritismo.

Ho notato che ogni tanto salta fuori, non solo nelle versioni di Chesterton, la traduzione di spiritualism/spiritismo con “spiritualismo”. Chissà, forse dipende dal fatto che la scelta di “spiritismo” per indicare tutti i fenomeni di contatto con l’aldilà è percepita come una scelta derisoria? E potrebbe anche esserlo. Alle scelte derisorie, però, non si rimedia appiccicando al fenomeno un altro nome, magari in maniera antistorica. (A proposito: il termine “cristiano” in origine era derisorio.)

Una volta che una determinata cosa abbia un nome, insomma, potremo anche trovare dei sinonimi collegati alla sua essenza ma non è utile darle nomi che creino confusione. Noi cattolici chiamiamo “Comunione” l’Eucaristia, perché essa ci unisce a Cristo, ma non chiamiamo “eucaristia legale” la comunione dei beni tra due coniugi. D’altra parte, mica vorremo cambiar nome all’Eucaristia e definirla, che so, “condivisione tribale” per il fatto che alcuni la considerano un segno di appartenenza al gruppo, come i tatuaggi che sono appunto tribali?

Questo modo di procedere – assecondare i false friends invece di cercar di capire se l’oggetto o l’esperienza ha già un nome consolidato – sembra una semplificazione e invece complica le cose.

La lingua è un fenomeno arbitrario: vuol dire che non esiste un motivo concreto per cui quella data cosa si debba chiamare “tavolo” anziché “gabinetto”. Questo però non significa che uno si alza la mattina e decide il significato delle parole: provate a dire a mamma/moglie/marito/figli Ti ho lasciato la colazione sul gabinetto e fate caso alla reazione.

Insomma, la lingua è arbitraria ma non è soggettiva, come dice il professor Rigotti.[2] È ciò che intendiamo quando diciamo che le lingue sono convenzioni: le convenzioni implicano sempre che almeno due persone siano d’accordo (in genere più di due) e non che ognuna faccia come vuole. Peccato che oggi questa cosa non sia più capita; anzi, c’è chi lavora attivamente contro di essa e c’è chi ci casca pensando che “tanto è uguale”.

Cambiare nome alle cose così come vien meglio non implica soltanto diventare incapaci di leggere i libri dell’Ottocento e del Novecento, come già siamo diventati incapaci di leggere il latino e il greco – e chissà poi a che dovrebbe servire l’alfabetizzazione in un panorama così?

Sembrerà esagerato ma, alla lunga, vuol dire non riuscire più a capirsi in nessuna occasione:

Ti ho cosato la cosa sul coso.

 

Mini-cronologia

1796. Primo utilizzo noto del termine spiritualism in inglese secondo il Merriam-Webster online, consultato il 16 gennaio 2015

1816. Primo utilizzo noto del termine “spiritualismo” in italiano secondo lo Zingarelli 2008; andando in Google Libri e cercando “spiritualismo” nel XIX secolo, però, ho trovato un libro del 1804 che usa il termine due volte, in ambito religioso, e un altro testo del 1815 che usa il termine come se fosse già noto. Misteri del vocabolario!

1848. Inizio del fenomeno di comunicazione con gli spiriti (pure detto spiritualism) a casa della famiglia Fox, in Hydesville (NY), USA

Ne possiamo dedurre che gli usi precedenti a questo anno fossero filosofici o religiosi e non relativi al contatto con gli spiriti

1856. Primo utilizzo noto del termine spiritism (Merriam-Webster online, consultato il 16 gennaio 2015)

1863. Primo utilizzo noto del termine “spiritismo” (Zingarelli 2008, non ho cercato altrove)

Insomma, visto che gli anglofoni avevano già inventato tutti e due i termini, noi abbiamo scelto di usare quello che creava meno confusione. Qualunque sia stato il motivo, non mi sembra una cattiva idea.

 

[1] Nel Merriam-Webster online, il lemma spiritism non ha definizione ma rimanda a spiritualism 2a.

[2] Rigotti E., Cigada S. (2004), La comunicazione verbale (par. 2.5.2), Apogeo, Milano.

Descrittomi si può dire?

Nelle ultime settimane, qualcuno ha visto quattro volte il mio blog nei risultati di questa ricerca:

descrittomi si può dire? 

È ora di rispondere; anche perché, se continua a chiedere, sospetto che la risposta non si trovi.

La risposta è, come spesso accade, sì e no. Il termine in sé è corretto; se si può dire o no, dipende da quel che vuoi dire con “si può” e con “descrittomi”, e anche da quando e perché vuoi dirlo.

1) Esiste o non esiste?

Alcuni usano l’espressione “si può” per chiedere se una parola o espressione esiste, diciamo, ufficialmente, formalmente.

Se questo è il caso, risponderò che descrittomi esiste a pieno titolo: è un participio passato (descritto) combinato con un pronome personale enclitico (mi = a me; “enclitico” vuol dire che è attaccato alla parola precedente) e significa che qualcosa è stato descritto a me. Si può usare anche al plurale, sia per la cosa sia per i riceventi: descrittimi/descrittemi oppure descrittogli/descrittole/descrittoci/descrittovi e combinazioni varie.

I pronomi enclitici, siano complemento di termine o complemento oggetto, possono attaccarsi, oltre che al participio passato, all’infinito (descrivermi, guardarmi), al gerundio (descrivendomi, guardandomi), all’imperativo (descrivimi, guardami).

2) Lo dico o non lo dico?

Attenzione anche all’uso. Se usare o meno un participio con -mi è questione di opportunità e di stile, più  che di grammatica.

Posso dire tranquillamente Ho visto il quadro descrittomi da mia cognata e userò una sola parola anziché cinque (Ho visto il quadro che mi era stato descritto da mia cognata), rendendo assai contenta la buonanima di Giosuè Carducci e senza guadagnarmi troppe occhiatacce. Io lo trovo uno stile un po’ pesante, ma sulla grammatica nessuno può dire niente.

Non va tanto bene, invece, dire Il quadro era stato descrittomi da mia cognata, non tanto perché sia formalmente errato (in realtà non lo so di preciso, potrebbe non esserlo) ma perché, altro che occhiatacce, è di una bruttezza paralizzante. Come lo è il fratello era statomi descritto. L’italiano è una lingua molto estetica, oltre che molto logica. Forse in vecchi scritti si possono trovare forme del genere, ma sono così legnose che non c’è da stupirsi se le abbiamo abbandonate.

3) E gli altri verbi?

Simili a descrittomi esistono anche altri casi, per esempio:

Ho appena ricevuto il pacco inviatomi da mia madre

Mise in un vaso i fiori portatile dall’amico

Le avventure raccontateci dall’ospite ci divertirono molto

per il complemento di termine e

Vistolo, gli fece cenno di avvicinarsi (Dopo averlo visto, gli fece cenno di avvicinarsi)

Salutatici, se ne andò (Dopo averci salutati, se ne andò)

per il complemento oggetto.

L’importante è fare attenzione a due cose:

* deve trattarsi di verbi che descrivono un’azione con un ricevente (complemento di termine) o con un oggetto (complemento oggetto);

* bisogna concordare il participio con il sostantivo cui si riferisce o con il complemento oggetto, mai con il complemento di termine; questo sembra ovvio ma perlopiù le cose che sembrano ovvie sono quelle che ti fanno lo sgambetto… e uno rischia di finire a parlare delle avventure raccontatogli dall’ospite.

Comunque equivale a tuttavia?

Ho trovato questa domanda tra le ricerche che conducono al mio blog (ne vedo sempre meno, visto che la maggior parte delle ricerche si svolge su Google e Google oscura le stringhe di ricerca per la privacy):

comunque equivale a tuttavia?

La risposta può essere “sì” e può essere “no”. In genere, no, non si equivalgono. In alcuni casi sì, si equivalgono, quando “comunque” è usato come congiunzione.

Come si fa a capire quando è no e quando è sì?

Si prova a sostituire “comunque” con “tuttavia”: se ci sta bene, vuol dire che c’è equivalenza, altrimenti no.  In molti casi, però, sarebbe assai meglio usare il “ma”, come nell’esempio al punto 2 dello Zingarelli. Quest’ultima frase avrei potuto scriverla nella forma “In molti casi, comunque, sarebbe assai meglio usare il “ma”….”. Se ne può dedurre che, a volte, “comunque” equivale anche a “però”.

Quando è usato come avverbio, invece, “comunque” non può mai equivalere alla congiunzione “tuttavia”, perché sono categorie diverse; e nemmeno può equivalere all’avverbio “tuttavia” perché hanno significati del tutto diversi. Ma l’avverbio “tuttavia” è letterario o defunto, non penso che il cercatore arrivato qui cercasse un’equivalenza di avverbi.

 comunque o †comunche

[comp. di come e del lat. umquam ‘mai’, con sovrapposizione di -cumque, di ubicumque ‘dappertutto’, ecc.; 1288]

A avv.

* In ogni modo, in ogni caso: riuscirò a ottenerlo comunque; è inutile che tu protesti: devi farlo comunque | In ogni caso, a ogni modo (con valore concl.): comunque, è meglio così; comunque, ci penso io.

B cong.

1 In qualunque, in qualsiasi modo (introduce una prop. modale con valore rel. e il v. al congv.): comunque stiano le cose, è arrivato il momento di una spiegazione; comunque sia; comunque si sia.

2 Tuttavia (con valore avvers.): è stata una cosa improvvisa, comunque potevi almeno avvisarmi.

3 †Appena che (introduce una prop. temp. con il v. all’indic. o al congv.).

4 (lett., raro) Quantunque.

Abbastanza+del tutto?

Mi è capitato di vedere in Facebook un brano di Chesterton in traduzione non ufficiale e il traduttore faceva dire all’autore “sono abbastanza del tutto persuaso”. Ho segnalato quella che a me pareva una svista – specie nell’ipotesi che l’autore avesse usato quite, che è veramente una trappola.[1] E ho compreso, da una risposta, che per qualcuno quell’espressione era equivalente a “quasi del tutto” o “sufficientemente”.

Questo non è vero. Dirò di più: non è neanche ipotizzabile, perché non ha proprio senso.

L’equivoco nasce, suppongo, dal fatto che in certi casi si usano “abbastanza” e “quasi” come se fossero equivalenti. Ma è una equivalenza solo di comodo, se pure c’è, perché in realtà non dicono la stessa cosa. E così “quasi del tutto” ha senso ma “abbastanza del tutto” non ce l’ha.

Abbastanza significa “a sufficienza” quindi anche “sufficientemente”, “in misura sufficiente”. Significa anche, e immancabilmente, “non del tutto”: non è tutto però quel che c’è basta. Sufficiente a che? Basta per che cosa?

Quasi, invece, significa “non del tutto” ma non parla di sufficienza. Anzi, afferma proprio il contrario.

La differenza è questa:

* “abbastanza” significa che qualcosa è sufficiente o perché di più sarebbe troppo o perché ce n’è quanto basta per andare avanti. Implica o che “non ce ne va di più” o che “mi accontento e passo ad altro”;

* “quasi” significa che non c’è tutto ma vorrei che ci fosse; non ho l’intero ma sono perlomeno disponibile ad averlo.

Questa differenza appartiene alla natura delle parole, non alle circostanze.

Se dico che ho capito abbastanza, vuol dire che credo di aver capito in generale e comunque non intendo far fatica per capire di più perché tanto mi basta. Se invece dico che ho quasi capito, sto dicendo che non ho capito tutto, ci sono dei punti oscuri, ma sarei disposto a proseguire per capire tutto. Che poi io possa oppure non possa effettivamente proseguire (circostanze) non influisce sul significato o sulla disponibilità.

Mi paiono due posizioni abbastanza differenti; avrebbe senso se dicessi che mi paiono due posizioni quasi differenti?

Questo è un altro significato di “abbastanza” ma non di “quasi”: piuttosto.

Se dico sto piuttosto bene, dico che potrei star meglio ma insomma mi accontento. Se dicessi sto quasi bene, sarebbe l’esatto contrario, starei dicendo che decisamente mi manca qualcosa.

In breve, sia “quasi” sia “abbastanza” implicano che l’interezza non c’è. Tuttavia, “abbastanza” si concentra sull’operatività: questo mi basta (a un qualche scopo, per fare qualcosa). Invece “quasi” si concentra sul rapporto tra soggetto e oggetto: voglio arrivare all’intero ma ancora non ci sono.

Per questo, non ha senso dire “abbastanza del tutto”: sono due espressioni alternative, o mi basta (mi accontento, mi fermo a quel tanto) oppure ho tutto. Ha invece senso dire “quasi del tutto” perché in tal caso il “quasi” implica la tensione ad arrivare al tutto, il desiderio di compiere il percorso che mi porta al tutto

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P.S. Dal punto di vista della grammatica, “quasi del tutto” è una locuzione avverbiale, cioè un’espressione che può sostituire un avverbio.

 

 

 

[1] Il termine quite significa “piuttosto, abbastanza” ma anche “del tutto, assolutamente”, a seconda di dove si trova. Ad esempio, l’espressione quite right non significa “piuttosto corretto” significa “assolutamente esatto” (e basta tradurre con “esatto”).