Credo che molti ormai conoscano la canzone Gam Gam per averla sentita cantare in occasione del Giorno della Memoria dell’Olocausto. Da qualche tempo la si sente anche in televisione, ma i più giovani probabilmente l’hanno imparata a scuola.
Qualche anno fa mi capitò di aiutare mio nipote, che allora faceva la seconda media, con i compiti di musica, uno dei quali era studiare lo spartito della canzone Gam Gam. Visto che nessuno dei due è una cima in materia, dopo averci zoppicato per una mezz’ora mi è venuta voglia di sentire la canzone vera e l’ho cercata su Youtube, dove trovai questa versione.
Come si può vedere ancora oggi (domenica 17 gennaio 2021), nello spazio per le informazioni è scritto che la canzone «E’ un pezzo del testo ebraico del Salmo 23 che le maestre ebree deportate nei campi di concentramento facevano cantare ai bambini».
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In pochi secondi mi ritrovai a piangere: pensavo a quanta fede, e quanto salda, ci vuole per insegnare ai bambini a dire “Anche se camminassi in una valle oscura non temerò alcun male perché tu sei con me” mentre si sta rinchiusi in un lager. E per cantarla con un ritmo così baldanzoso!
Mi chiedevo che cosa avrei fatto io nelle stesse condizioni e, ovviamente, non sapevo darmi una risposta perché non esiste risposta a questo genere di domanda. Puoi decidere che cosa vorresti fare, puoi pregare di aver la forza di farlo, puoi prepararti a ogni evenienza, incluse le peggiori: questo sì, è possibile farlo ed è, anzi, un dovere. All’atto pratico, però, quel che farai non lo puoi sapere finché non lo fai.
Così, provate a immaginare come mi sono sentita quando, dopo aver fatto una ricerca neanche tanto breve, ho scoperto che non è vero. Ciò che avevo visto riportare come un fatto, in realtà è qualcosa che accade in un film.
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Provate a immaginare, dicevo; ma non ci riuscirete, perché anche questa è una cosa che puoi sapere solo quando ti succede. E comunque ognuno reagisce a modo suo.
Io mi sono sentita presa in giro.
Non ho problemi a piangere e mi va benissimo piangere per un film come mi va bene piangere perché mi è morto il cane o per il lutto di un’amica. Mi è capitato di stare mesi e anni senza poter piangere e sono convinta – come chiunque ci sia passato, ho scoperto – che piangere sia uno dei massimi doni che possiamo ricevere. Ma non mi sta bene che mi si prenda in giro facendomi credere che sia verità ciò che è finzione cinematografica. Questa è una delle menzogne più infami perché toglie presa alla verità e toglie scopo alla finzione.
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Attenzione. Non sto dicendo che non è vero che nei lager i bambini recitassero o cantassero il Salmo 23 con le maestre ebree; non ne ho idea. All’arrivo ai lager i bambini di solito venivano separati dagli adulti ma non so se accadesse sempre e dovunque. Non ho letto il libro da cui è stato tratto il film, quindi non posso parlare di questi particolari aspetti.
Sto invece dicendo che i bambini nei lager non cantavano la canzone che noi conosciamo come Gam Gam.
Non lo facevano per l’eccellente motivo che quella canzone a quel tempo non esisteva ancora.
Non esisteva ancora neanche il suo compositore, Elie Botbol, medico e musicista, nato nel 1954. Quella canzone fu scritta dal dottor Botbol negli anni Ottanta per il coro di bambini che aveva ideato e dirigeva, Chevatim.
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Esisteva il testo, naturalmente: come dicevo, il testo di Gam Gam è una parte del Salmo 23, che anche noi cristiani recitiamo o cantiamo.
Sicuramente i bambini avrebbero potuto recitare o anche cantare il Salmo 23, perché esso viene cantato durante lo Shabbat, come ci informa Wikipedia, e dunque i bambini saranno stati abituati a sentirlo cantare una volta a settimana. È possibile che nel libro sia riportata una storia simile.
Sicuramente questo, se fosse accaduto, renderebbe testimonianza alla fede del Popolo Eletto, quantomeno delle maestre, ma non lo so (ancora).
So però che la musica non era quella, gioiosa, che ha fatto piangere me. E non so dire se avrei pianto altrettanto di fronte a una musica meno allegra.
Pensare che nei campi si cantasse una canzone festosa come Gam Gam può essere un modo di rendere onore alla religiosità degli ebrei: ai bambini però va detto e spiegato in questo modo qui, non con la patina zuccherosa e pericolosa delle emozioni facili. E anche così la spiegazione non renderà mai giustizia delle sofferenze e del senso orribile di incomprensione dei piani di Dio. È anche per questo che la vicenda mi ha colpito.
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So che tutto questo può sembrare poca cosa di fronte all’Olocausto, invece le cose sono due e anche abbastanza importanti.
Innanzitutto, la faccenda fa capire quanto poco interesse, in generale, ci sia per la verità e quanta incapacità di distinguere tra cronaca e film o, per dirla in termini di grandi categorie, tra ciò che è vero e ciò che è solo verosimile.
Non è un problema di oggi, ma oggi sta diventando un grosso grosso problema, perché non esistono più modi per contenerlo. In seguito alla mia ricerca ho scoperto che questa storia viene raccontata come vera anche nelle scuole. Non solo i bambini imparano la canzone; da qualche parte (non dico dovunque, eh!) imparano anche che si tratta di un fatto realmente accaduto, il che non è del tutto vero, come dicevo.
In secondo luogo, a cinquant’anni posso affrontare una simile presa in giro in maniera intelligente; a sedici anni però mi sarei avvelenata come un cobra e avrei probabilmente cominciato a pensare che la scuola e i media raccontano balle. Questo è parzialmente vero per una discreta quantità di argomenti, ma guai ad abbracciare un simile criterio a sedici anni.
Se si accetta che il verosimile sia usato in sostituzione del vero (a scuola, in tv, su Youtube… dovunque) e non come introduzione al vero – e l’Olocausto è dannatamente vero ma non solo l’Olocausto – poi non ci si può stupire che venga fuori gente che nega perfino l’evidenza. Nel momento in cui un giovane o una persona immatura di qualunque età si trova a soffrire delusione o scorno, è molto molto facile che poi si dica “Allora non è vero niente” e che cominci a dare retta alle teorie più strampalate.
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Non si insegna la verità raccontando menzogne o consentendo che siano raccontate. E voglio specificare che un racconto – dal mito al romanzo autobiografico – è finzione ma non è menzogna finché non si cerca di far credere che sia la verità vera; così come una statua non è menzogna ma finzione. I termini stessi “finzione” e fiction derivano dal latino fingere, che significa “plasmare” e non, come poi è diventato in italiano, “simulare” (perlopiù mentendo).
La finzione serve per introdurre alla verità. Perfino il più dozzinale dei filmetti o romanzetti rosa può farti venire la curiosità di approfondire un particolare che non conoscevi. Se poi vedo un film come La chiave di Sara oppure la miniserie di Rai Uno dello scorso anno (2020) La guerra è finita mi incuriosisco e vado ad approfondire: nel primo caso, che cosa successe in Francia coi rastrellamenti; nel secondo, che cosa sia successo agli ebrei dopo la liberazione: non accadde infatti che gli ebrei se ne tornassero a casa tranquillamente, anzi, molti di loro restarono chiusi nei campi ancora per mesi, perché non si sapeva dove farli andare, ma questo fino a qualche anno fa non ce lo raccontava nessuno (benemerita Rai Storia, la prima volta ne ho sentito parlare lì; e la miniserie che ho menzionato è tratta da un libro, come anche il film di Roberto Faenza).
Il compito della finzione è di farmi entrare in contatto con la realtà e farmi nascere dentro la curiosità di sapere come davvero sono andate le cose.
Esempio. Nel film Sette anni in Tibet sono presenti due scene che amo tantissimo ma che non sono presenti nel libro di Harrer: quella dei lombrichi e quella in cui i tibetani, aspettandosi l’attacco dei cinesi, si preparano affilando le falci, che sono praticamente le uniche armi che possiedono. Questa seconda cosa, in particolare, mi ha sempre commosso ma nel libro non ve n’è traccia. È servita a spingermi a leggere il libro, che è uno dei più bei libri che abbia mai letto, ma non accetterei che venisse insegnata come verità, tanto più che non rende ragione della mentalità di quel popolo. Fino a cinquant’anni anni fa eravamo scusati dal fatto che certe cose non si sapevano realmente e allora si accettava il verosimile come vero, senza sapere che non era vero ma solo verosimile; ma oggi, chi ci potrebbe scusare?
La finzione non ha lo scopo di sostituire la realtà e la verità ma di esaltarle, in un certo senso. Quantomeno dovrebbe averlo ed è per questo che certe vicende sono state raccontate in maniera romanzesca dai loro stessi protagonisti. La mania attuale delle docufiction è deleteria perché dà un’illusione di verità e non un’apertura alla ricerca, ma che anche la scuola o la tv pubblica debbano accordarsi al malcostume, be’, non mi sembra che dovremmo accettarlo.
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Jona che visse nella balena
* film diretto da Roberto Faenza, 1993
* tratto dal libro Anni d’infanzia. Un bambino nei lager di Jona Oberski, 1978 (l’edizione italiana è del 2007)
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P.S. Che la finzione serva come introduzione alla verità, naturalmente, è più un criterio per scegliere e valutare che un motivo per scrivere. (Potrebbe essere un ideale, per scrivere.) Con la finzione si possono raccontare balle monumentali in perfetta volontà di male e indurre il mondo a crederci, ma non mi sentirei di dire che ciò sia cosa buona.