Be’, io di solito faccio il paragone con le patate ma più o meno…

Ho appena letto un articolo di pochi giorni fa sul commercio di libri in Francia e Italia. Sono contenta che M. Leclerc si sia reso conto che i libri non sono come le scatolette di tonno.

LIBRI/ Legge sulla promozione della lettura: attenti alla profezia di Lang, di Innocenzo Pontremoli, IlSussidiario.net, 15 febbraio 2020

Jack Lang, ministro della cultura di Mitterrand, ha lasciato ampie tracce del suo operato. Tra le altre cose, a lui si deve la promulgazione di una legge sul commercio del libro, nota appunto come Legge Lang. Scopo della legge, divenuta riferimento irrinunciabile per qualunque discorso sul commercio del libro, quasi una riedizione della storica Lettre historique et politique adressée à un magistrat sur le commerce de la librairie di Diderot, era difendere la filiera tradizionale, le piccole e grandi librerie francesi, dall’offensiva della grande distribuzione organizzata. Ciò attraverso l’imposizione di un limite massimo allo sconto, stabilito nel 5% del prezzo di copertina.

Naturalmente, la legge fu ferocemente avversata dai fautori di un liberismo senza se e senza ma. Famose le invettive di Leclerc, proprietario della maggiore catena di supermercati d’oltralpe, il quale, peraltro, qualche tempo dopo ammise di essersi sbagliato, riconobbe che il libro ha una sua specificità e che “non può essere trattato come una scatoletta di tonno o un barattolo di pomodori”.

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Speriamo che se ne accorgano pure gli editori italiani, oltre che i proprietari dei supermercati. Qualcuno ha già cominciato a destarsi.

Perché chiudono le librerie? Intervista di Tiziana Zita a Paolo Nicoletti Altimari della libreria Koob di Roma, Cronache Letterarie, 11 novembre 2019

Salvini, Romano e Silvio Pellico

Qualcuno dovrebbe ricordare al senatore Matteo Salvini che Silvio Pellico, in prigione, scrisse la storia della sua conversione e delle persone buone che aveva incontrato e delle consolazioni che aveva avuto pur in condizioni sventurate. Giusto per fargli sapere a che compito andrebbe incontro.

Qualcuno dovrebbe ricordare all’onorevole Andrea Romano che una condanna ingiusta è sempre ingiusta, che duri un mese o dieci anni. Uno poi se la vive come meglio crede. Se però la condanna gli pare ingiusta, gli parrà ingiusta qualunque sia la durata.

(Stasera Italia, lunedì 20 gennaio 2020)

E forse la maggior parte di noi italiani farebbe bene a leggere, o rileggere, Le mie prigioni.

Capita che io l’abbia letto, per la prima volta, nel dicembre appena scorso, quindi so di che parlo. Suggerisco di cercare l’edizione integrale Mursia, collana Pagine di vita (quella che si vede qui, ma certo sarà anche in biblioteca), la quale contiene anche una brevissima introduzione dell’Autore e i dodici capitoli aggiunti per l’edizione francese del 1843 (la prima edizione, italiana, è del 1832). La copia che si può trovare in Liber Liber, invece, è un’edizione Oscar Mondadori e manca di entrambe le cose.

Visto che ci sono (e che è brevissima), l’introduzione la offro io. Non penso che la Mursia se la prenderà. Gli a-capo sono miei.

 

Ho io scritto queste Memorie per vanità di parlar di me? Bramo che ciò non sia, e per quanto uno possa di sé giudice costituirsi, parmi d’avere avuto alcune mire migliori:

– quella di contribuire a confortare qualche infelice coll’esponimento de’ mali che patii e delle consolazioni ch’esperimentai essere conseguibili nelle somme sventure;

– quella di attestare che in mezzo a’ miei lunghi tormenti non trovai pur l’umanità così iniqua, così indegna d’indulgenza, così scarsa d’egregie anime, come suol venire rappresentata;

– quella d’invitare i cuori nobili ad amare assai , a non odiare alcun mortale, ad odiar solo irreconciliabilmente le basse finzioni, la pusillanimità, la perfidia, ogni morale degradamento;

– quella di ridire una verità già notissima, ma spesso dimenticata: la Religione e la Filosofia, comandare l’una e l’altra energico volere e giudizio pacato, e senza queste unite condizioni non essevi né giustizia, né dignità, né principii securi.

— Silvio Pellico, Le mie prigioni, Mursia «Pagine di vita», 1971, pag. 8

 

… … … Il Papa non ha detto niente sullo ius soli …

Non riesco più a essere né stufa né preoccupata per l’insipienza dei mezzi d’informazione. Ormai ci ho messo una croce. Però, quel che è giusto è giusto.

A sentire i telegiornali, Papa Francesco avrebbe dato il suo avallo allo ius soli cui tanto tengono i nostri “progressisti”, nel messaggio per la prossima Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato.[1] È così? No. Non ha scritto né detto niente del genere. Il messaggio integrale si può leggere qui.

 

Che cosa ha scritto, dunque, sulla cittadinanza?

Nel rispetto del diritto universale ad una nazionalità, questa va riconosciuta e opportunamente certificata a tutti i bambini e le bambine al momento della nascita. La apolidia in cui talvolta vengono a trovarsi migranti e rifugiati può essere facilmente evitata attraverso «una legislazione sulla cittadinanza conforme ai principi fondamentali del diritto internazionale». 

Dove sarebbe il “sì allo ius soli”?

 

Analizziamo:

* Nel rispetto del diritto universale ad una nazionalità

Si potrà discutere se un tale diritto esista o meno, avendo del tempo da perdere. Se però ammettiamo che esista e ci concentriamo sul resto, possiamo facilmente vedere che il Papa non parla di una particolare nazionalità; dice che ciascuno deve averne una, ma non dice che deve essere quella della nazione in cui nasci (che è ciò che chiamiamo ius soli).

 

* questa va riconosciuta e opportunamente certificata a tutti i bambini e le bambine al momento della nascita.

In altre parole, appena nasci hai il diritto di sapere chi sei e a quale comunità appartieni, anche dal punto di vista nazionale, e lo devono sapere anche tutti gli altri, perciò devi avere dei documenti. Ma di nuovo non parla di una particolare nazionalità.

A me parrebbe ovvio che prendi la nazionalità dei tuoi genitori, perché è a quella comunità (dalla famiglia alla nazione) che appartieni, non a quella che transitoriamente ti ospita.

Solo che esiste un problema, uno di cui noi comuni cittadini non abbiamo grande sentore: l’apolidia forzata.

 

* La apolidia in cui talvolta vengono a trovarsi migranti e rifugiati

Apolidìa significa non avere alcuna cittadinanza. Per me, fino al film The Terminal, quello di Spielberg del 2004, con Tom Hanks, tratto da una storia vera, gli apolidi si trovavano solo nei vecchi romanzi; bisogna riconoscere che non è proprio un termine o un’esperienza di tutti i giorni. Ed erano volontari o almeno lo sembravano (nei romanzi, dico). Invece la maggior parte degli apolidi non lo sono né lo furono per loro volontà, proprio come Tom Hanks nel film.

Ho scoperto che è una condizione molto diffusa, da molto tempo, e non crea solo disagi amministrativi ma anche psicologici: perché non è affatto bella la sensazione di non appartenere a niente e nessuno, e questo lo so senza bisogno che me lo dicano altri. Un apolide avrebbe disagi e una cattiva qualità della vita (ma forse questo è un argomento da impiegare solo quando si tratta di sopprimere malati) anche se non fosse costretto a vivere per anni in una specie di campo di concentramento, come sono i centri di accoglienza, in Italia e altrove.

Esistono migranti che sono apolidi, o formalmente o per condizioni contingenti, e che dunque non possono dare la propria nazionalità ai loro figli perché non ce l’hanno neanche loro. Per questi casi esiste già in Italia lo ius soli, anche se bisogna riconoscere che è difficile da ottenere. Così, a patto di conoscere questa particolare disposizione di legge, si potrebbe anche pensare che il Papa sia favorevole allo ius soli… ma sarebbe solo favorevole a questo particolare tipo, non a quello “allargato”, quello di cui si discute da mesi, quello a cui vogliono farci pensare i tg.

Tuttavia bisogna ricordare sempre che il Papa non parla solo della o all’Italia. È provinciale voler credere che ogni parola del Romano Pontefice parta e arrivi alla misera politica di casa nostra. Oltre a questo, non è solo il Santo Padre a interessarsi del problema dell’apolidia (e Papa Francesco non è il primo), ma certo quel che dice lui fa più effetto di quel che dice l’UNHCR.

 

* può essere facilmente evitata attraverso «una legislazione sulla cittadinanza conforme ai principi fondamentali del diritto internazionale». 

Le parole tra virgolette sono prese da un documento del 2013. Noi che facevamo nel 2013? Discutevamo dello ius soli? No. Il diritto internazionale obbliga allo ius soli? A naso direi di no, altrimenti non saremmo qui a discuterne. Facciamoci delle domande.

 

Legare le parole del Papa – che sono sempre rivolte a tutti – allo ius soli di cui si discute qui oggi è arbitrario e autoreferenziale, nonché un pochino opportunistico. Ma innanzitutto è falso, perché oggettivamente sta parlando d’altro.

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[1] Notare la distinzione tra i due termini, che non manca mai.

 

Jane Austen, Love and Freindship

Il titolo va scritto proprio così ed è una commedia veramente divertente.

Oggi la JASIT ha pubblicato l’articolo che avevo annunciato nel post del 18 luglio, dove però non avevo parlato di questo particolare testo. Anche perché già ne parla GKC, che bisogno c’era di me?

E non c’è bisogno nemmeno adesso, perché è uscita l’edizione italiana a stampa delle opere giovanili di Jane Austen, tra cui anche questa. Ecco l’articolo relativo. 

L’articolo di GKC che ho tradotto era proprio l’introduzione a una prima edizione americana degli Juvenilia, cioè le opere giovanili della scrittrice.

In italiano non si usa (o non si usa più? ma neanche il Tommaseo-Bellini lo riporta) juvenilia, anche se è una parola così bellina e chiara. Siccome sono “opere”, si sarebbe tentati – io lo sono senz’altro – di considerare femminile il termine; ma è un neutro plurale e in questi casi si usa normalmente l’articolo maschile.

La lingua inglese impiega vari termini latini che invece l’italiano non ha usato mai. Ricordo ancora la sorpresa di trovare impromptu orchestra (aggettivo+sostantivo: “orchestra improvvisata”) nel primo capitolo di The Lord of the Rings! Ma in realtà l’inglese ha più elementi provenienti dal latino di quanti potremmo immaginare. Qualche anno fa c’è stato il solito manipolo di benpensanti che ha proposto di eliminarli (come da noi l’Istat propose di eliminare i numeri romani dalle pubbliche vie), ma credo che non se ne sia fatto nulla.

Perché continuo a leggere Chesterton

Ho cominciato a leggere i libri di Chesterton come cominciano quasi tutti qui da noi, vale a dire con i racconti di padre Brown e quelli del Club dei mestieri stravaganti. Facevo l’università e per anni ho continuato a leggere solo le raccolte di padre Brown, senza interessarmi se ci fosse dell’altro.

Qualche anno fa, scopersi che c’era molto altro, tramite un blog che oggi non è più attivo, “OSTERIA VOLANTE: contro il logorio della vita (post)moderna”. A causa di quello lessi appunto il romanzo L’Osteria Volante e poi Le avventure di un uomo vivo, traduzione di Emilio Cecchi, che è anch’esso un romanzo ed è l’unico libro tra i mille che ho letto ad avermi fatto venire le lacrime per il fatto che qualcuno l’avesse scritto – per dire la potenza con cui mi ha colpito.

Da quel blog arrivai anche al blog della Società Chestertoniana Italiana, che si chiama “G. K. Chesterton – Il blog dell’Uomo Vivo” (si può capire che ‘sto uomo vivo è qualcosa d’importante) e lì rimasi particolarmente intrigata dalla Scuola Libera Chesterton e dalla filosofia economica detta “distributismo”.

Così ho continuato a frequentare Chesterton, passando dalla narrativa ai saggi e aggiungendo alla lettura la traduzione. Ho anche conosciuto vari suoi amici, tra cui Hilaire Belloc e i miei consoci della SCI.

Come mai continuo a leggerlo e a tradurlo; o meglio, rispondendo a una domanda espressa (eravamo al XIV Chesterton Day), qual è l’eredità di Chesterton che trattengo, è scritto qua:

L’eredità di Chesterton secondo Umberta Mesina