Da dove verrà l’espressione “fuori di testa”?

Notavo ieri sera che c’è parecchia gente un pochino fuori di testa, ma sul serio, non per retorica come nelle canzonette.

C’è gente che sta perdendo la cognizione del tempo, a causa del continuo allarme Covid. Continua a leggere “Da dove verrà l’espressione “fuori di testa”?”

L’ironia e come riconoscerla

No, non è vero, stavolta ho esagerato: riconoscere l’ironia non è facile per niente. A me ci sono voluti decenni, non scherzo.

È anche una faccenda complicata per il cervello. Talmente complicata che ormai molti cervelli ci rinunciano del tutto, come sta accadendo con la stramba pubblicità del Buondì Motta, la merendina più buona del mondo dopo la Fiesta Ferrero. (Numero uno per chi la mangia con il latte e il tè, anzi; ma io non prendo nessuno dei due.)

La pubblicità è oggettivamente stravagante, bisogna riconoscerlo: asteroidi che colpiscono le persone ci sono solo nei peggiori incubi dei poeti e forse nemmeno lì. Nella realtà, è risaputo, il massimo che può accadere è che un asteroide colpisca un pianeta e stermini i dinosauri e gran parte delle altre forme di vita per vari millenni.

Ma oggettivamente quella pubblicità è anche un’altra cosa: è una presa in giro. La prima frase infatti è una parodia del genere pubblicitario, così come Frankenstein Junior è una parodia del genere horror e Balle spaziali una parodia di Guerre stellari.

 

parodia
[vc. dotta, gr. paroidía, comp. di para– ‘para-’ e oide ‘canto’ (V. ode); 1575]

s.f.

1 Versione caricaturale e burlesca di un’opera, un dramma, un film e sim., o di parti di essi: fare la parodia di una famosa canzone; mettere qlco. in parodia.

2 (mus.) Nella musica medievale e fino al XVII sec., pratica di riutilizzazione e trasformazione di testi e melodie preesistenti per la realizzazione di nuove composizioni; dopo il XVII sec., deformazione di modelli stereotipati con intenti grotteschi.

3 (fig.) Persona, organismo e sim. che rappresentano soltanto un’imitazione scadente e ridicola di quello che in realtà dovrebbero essere: una parodia di governo, di parlamento.

 

Ma l’ironia che c’entra, allora? Una parodia è una presa in giro palese, mentre l’ironia è tecnicamente una forma di menzogna, come diceva Aristotele, cioè un modo di nascondere la verità; in senso ampio, è un modo per non mettere in mostra le cose con troppa crudezza.

L’ironia nasconde, la parodia sbeffeggia. Perciò in genere le parodie sono comprensibili e l’ironia invece richiede delle cognizioni che non tutti possiedono; i bambini per esempio non comprendono l’ironia perché hanno un senso della realtà molto letterale.

Per capire, userò un esempio. Anzi, due.

Primo. Se io dicessi a qualcuno che il film The Family Stone (in italiano “La neve nel cuore”) del 2005 è un’illustrazione della capacità che hanno i liberals americani di accogliere chi è diverso da loro, starei usando l’ironia e contemporaneamente dicendo una bugia in senso tecnico.

Per capire ciò che intendo, infatti, bisogna aver visto il film e quindi sapere già (cognizione che non tutti posseggono) che il film mostra l’esatto contrario: l’incapacità, almeno nell’immediato quotidiano, dei suddetti liberals di accogliere chi non la pensa e non si comporta come loro. È qui l’ironia della mia frase. Ma è qui anche la bugia.

In senso proprio avrei dovuto dire che il film illustra il livello di capacità che hanno i suddetti. Questa è una formulazione neutra, perché il livello può essere alto o medio o basso; ed è veritiera in ogni punto (se poi uno vuol capire quel che gli pare, sono fatti suoi, s’intende). La prima invece non lo è, perché “capacità di accogliere” è un’esperienza determinata ed è il contrario di “incapacità di accogliere”.

Nel primo caso, che è una formulazione ironica, sto dicendo il contrario di quel che è – perciò l’ironia è tecnicamente una menzogna, anche se ovviamente io non ho intenzione di far del male a nessuno descrivendo il film in quel modo.

Ecco, per dirla grossolanamente, l’ironia è “dire una cosa dicendo il suo contrario”, come si vede nell’esempio al punto 1 dello Zingarelli.

 

ironia
[vc. dotta, lat. ironia(m), dal gr. eironéia, da éiron, propr. ‘colui che interroga (fingendo di non sapere)’, di etim. incerta; 1374]

s.f.

1 Dissimulazione del proprio pensiero dietro parole che hanno significato opposto o diverso da quello letterale (ad es. bell’idea avete avuto!, per dire che l’idea è stata invece cattiva): ironia bonaria, sottile, grossolana | La figura retorica corrispondente a questo modo di esprimersi.

2 (est.) Umorismo sarcastico: non si fa dell’ironia sulle disgrazie altrui | Derisione, scherno: uno sguardo pieno d’ironia | (fig.) Ironia della vita, della sorte, del destino, si dice quando la vita, la sorte ecc. sembrano accanirsi contro qlcu., quasi a volerlo beffare.

3 (filos.) Ironia socratica, il metodo maieutico mediante il quale Socrate, fingendo ignoranza, portava il suo interlocutore alla scoperta della verità.

 

Non dovrebbe essere difficile capire che definirla “bugia” in moltissimi casi è una questione tecnica e non morale. Ci sono anche casi in cui l’ironia è una menzogna per davvero, ma questa è un’altra storia (che si trova raccontata, per esempio, nella Somma teologica, seconda parte della seconda parte, argomento 113, sull’ironia con la quale uno finge di sottovalutare sé stesso).

Secondo esempio. Ho detto che i bambini hanno un senso della realtà molto letterale. Una volta, anni fa, guardavo il film Cars, un cartone animato della Pixar, insieme al figlio di amici e a un certo punto c’era una scena catastrofica ed esilarante, come capita spesso in molti cartoni. Siccome era esilarante e io avevo già quarant’anni, quindi l’infanzia me l’ero scordata da un po’, ho cominciato a rotolarmi dalle risate. E Matteo, che di anni ne aveva quattro, si gira verso di me e grida: NON C’E’ NIENTE DA RIDERE! Ed era serio.

Qualche tempo dopo mi è successa una cosa analoga con mio nipote. La seconda volta ho capito. Repetita iuvant, come diceva qualcuno.

Io vedo i cartoni con gli occhi degli adulti che li hanno realizzati; ma i bambini li vedono con i loro occhi di bambini, che hanno esperienze limitate; tra queste c’è il dolore e la possibilità del dolore, anche diverso da quello che essi abbiano già conosciuto. Un incidente di massa tra automobili è una cosa che di per sé è dolorosissima, se accade nella realtà. A quattro anni i piccoli vedono questo, non percepiscono l’ironia o la parodia. Perciò si spaventano. Hanno il senso del drammatico, rispetto a certe cose; non hanno ancora il senso del comico. Quello lo sviluppano più tardi. E l’ironia, che è molto più complicata, trattandosi di una forma di dissimulazione, per loro rimane misteriosa ancora più a lungo. Specie se nessuno gliela insegna, cioè gliela indica a dito, nel senso etimologico della parola.

Ora, se una bambina si spaventa vedendo l’asteroide colpire la mamma nella pubblicità del Buondì, come ho sentito dire, io la capisco perfettamente.

Del resto, quella non è una pubblicità rivolta ai bambini, che non sono minimamente in grado di capirla. Se voleva esserlo, sarà meglio che la Motta prenda altri pubblicitari. La parodia dell’inizio, forse la rilevano e forse no: voglio dire che probabilmente nessuno di loro si esprimerebbe in quel modo per chiedere una merendina alla mamma, ma non saprebbero dare ragione del perché non lo fanno. (Questo tra l’altro implica che, se non ci fosse il colpo successivo, i bambini potrebbero pure cominciare a imitare quel modo di parlare; ma anche questa è un’altra storia.)

Di sicuro i bambini non sono in grado di capire l’ironia successiva, dove il sussiego della mamma, insieme alla sua poca fede nella Motta, viene abbattuto dall’asteroide. Quella è proprio comicità ironica e i bambini non hanno gli attrezzi mentali per capirla. Gli adulti ce li dovrebbero avere, però, e dire ai figli spaventati: Ma guarda che questa cosa non è reale: serve per far ridere i grandi e fargli ricordare la merendina quando vanno a fare la spesa.

Così, e solo così, i bambini impareranno pian piano a distinguere la realtà primaria dalla realtà secondaria e alla fine anche l’ironia. È vero che da noi si chiama “ironia” ciò che propriamente è sarcasmo; come lo Zingarelli riporta al punto 2. Ma i bambini non capiscono nemmeno il sarcasmo, benché riescano a capirlo molto prima di altre cose. Sono tutti aspetti che devono imparare dai grandi, altrimenti li impareranno dai libri – quelli fortunati, come me – oppure non li impareranno mai e diventeranno adulti semiselvaggi che nella stramba pubblicità del Buondì Motta vedono chissà che attacchi lobbistici alla famiglia. In gergo si chiama “fuoco amico”.

Non arriverò ad eliminare queste persone dalla mia lista contatti di Facebook, come ha minacciato di fare un mio amico.

Ma possa un asteroide colpirmi se mai dovessi prenderli sul serio per altro che per il danno manifesto alla corteccia prefrontale.

 

Caivano: tutti sapevano o no?

Io credo nei miracoli, anche quelli semplici di ogni giorno.

Se a Caivano tutti sapevano, allora l’ignoranza della sola famiglia della bimba morta è un miracolo dell’innocenza.  Oppure si sta facendo torto a un sacco di altra gente.

Questo miracolo comunque, anche da solo, rende irrimediabilmente falsa la frase «tutti sapevano».

Non ce la faccio più, a sentire questo ragionare sciatto infarcito di iperboli. Vorrei poter evitare i telegiornali come riesco ad evitare i quotidiani.

Se invece non credessi nei miracoli, direi che, se tutti sapevano, allora anche quella famiglia sapeva e ora finge di no.

Che differenza di stile, eh?

Io, che credo nei miracoli perché credo che la realtà non la facciamo noi e quindi è sempre più grande di noi ed esistono infinite possibilità, posso credere nell’innocenza di quella famiglia, che possiamo solo definire miracolosa, se le cose stanno come ce le raccontano le iperboli giornalistiche. Se fossi un magistrato, cercherei di verificare il miracolo, ma non darei per scontato che non è possibile.

Uno che non creda nei miracoli, invece, si priva di possibilità: perché se uno non crede nelle possibilità infinite, di cui fanno parte i miracoli, non può nemmeno credere che solo quella famiglia, tra tante, non avesse mai visto né saputo niente. Sarebbe costretto o a rinnegare le proprie convinzioni o ad accusare anche le vittime (ma la prima accadrebbe, e non la seconda: oggigiorno ci vuole gran coraggio per accusare le vittime di non essere solo vittime).

Non so se la frase “tutti sapevano” venga dai magistrati o dai giornalisti ma, se uno credesse davvero in quello che dice, allora anche la famiglia della vittima dovrebbe avere gli inquirenti addosso.

Ne deduco che c’è qualcuno in Italia che non crede in quello che dice. Ma lo dice lo stesso.

 

Abbiamo imborghesito perfino i contadini

Negli ultimi anni, mi è capitato tante volte di pensare che in Italia siamo riusciti a imborghesire perfino i contadini. Un ossimoro incarnato, insomma. Potevamo riuscirci solo noi, il popolo più creativo del globo.

Ora ho scoperto che non sono l’unica a pensarlo, o meglio ad averlo pensato. Questo mi conforta, perché a volte mi sento un po’ sola, anche se l’altro è morto.

Conosco anche – perché le vedo e le vivo – alcune caratteristiche di questo nuovo Potere ancora senza volto […] la sua decisione di abbandonare la Chiesa, la sua determinazione (coronata da successo) di trasformare contadini e sottoproletari in piccoli borghesi, e soprattutto la sua smania, per così dire cosmica, di attuare fino in fondo lo “Sviluppo”: produrre e consumare.

—Pier Paolo Pasolini, editoriale «Il Potere senza volto», Corriere della Sera, 24 giugno 1974, citato da A. Savorana in Vita di don Giussani, cap. 19, Rizzoli 2013, pag. 536.

E pensare che di Pasolini non ho mai letto niente. Mi toccherà rimediare… appena sparisce la pila di libri che ho sulla scrivania.

Parole e musica

Non me la sto tirando, giuro. E spero che nessuno si offenda perché parlo così senza appartenere al “mondo della scuola”. Ma per me il mondo è uno solo… e comunque a scuola ci ho passato tredici anni.

SCUOLA/ I testi di Renga, Arisa, Noemi, & co: se a Sanremo le parole non “suonano” più, IlSussidiario.net, 23 febbraio 2014

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P.S. L’enjambement non è una figura retorica, veramente; ma faceva parte degli strumenti di tortura del mio insegnante di letteratura italiana quando si apriva la Divina Commedia, così io lo associo sempre alle figure retoriche.