valentina

Con la maiuscola, “Valentina” è il nome di mia sorella (e di molte sorelle altrui) e oggi è giorno di auguri da onomastico.

Con la minuscola, “valentina” è un biglietto amoroso o anche scherzoso che gli innamorati si scambiano per la festa di san Valentino.

La valentina non è una tradizione nostra. Noi del Sud siamo materiali e preferiamo i fiori e le cene. Ma nei paesi del Nord, soprattutto in Inghilterra, le valentines sono una vecchia vecchia tradizione.

Ora, trovandomi a dover tradurre l’inglese valentine (card), io lo traduco con “valentina”.

Per tre motivi.

Uno è che “valentino”, maschile in quanto biglietto, non mi piace.

L’altro è che da ragazzina lessi una delle avventure di Nancy Drew (La Baia dello Specchio, n. 121 del Giallo dei Ragazzi, traduzione di Luisa Maffi; era uno dei miei libri preferiti, tra i pochi che possedevo, al tempo, e devo averlo letto almeno trenta volte) e vi si parlava appunto di questi biglietti, che erano stati tradotti con il termine plurale “valentine”, singolare “valentina”.

Di più: trattandosi di un termine non usuale per noi, la prima volta che appare nel libro, al plurale, si trova da virgolette a caporale (« »), un modo vecchio stile per introdurre un termine nuovo; nelle righe successive, dove compare al singolare, è riportato senza virgolette. 

Dopodiché, terzo, ci fu un libro di strisce dei Peanuts intitolato Una valentina per Charlie Brown e con ciò il termine è ormai consacrato. Anche se non compare nei vocabolari, io lo uso.

Qualche immagine

Non tutte le valentine erano sdolcinate, però. Alcune erano agre come l’aceto: le chiamano infatti Vinegar Valentines.

Dominato?!

Quando dico che l’eccesso di cattiva comunicazione distrugge la capacità di pensare e quindi di parlare, so quel che dico.

Ho appena incontrato un autore che delinea il fatto che “emirato” è un termine con più significati (e quindi la parola in sé non implica niente di particolare) e che non è quindi del tutto adeguata la vecchia traduzione con “principato”. E fin qui va bene, se consideriamo che nel mondo islamico non esiste un concetto di aristocrazia come in quello greco-latino. Se ne potrebbe discutere ma da un certo punto di vista è verissimo e quindi va bene.

L’autore in questione non è il solo a rilevare la cosa, basta fare una piccola ricerca in rete, ma si spinge oltre e afferma che, siccome il termine amir, emiro, implica il comando (infatti un emiro è un comandante militare, in sostanza), allora

più che “principato”– il princeps che comanda entro un tempo, un luogo e una giurisdizione – dovrebbe parlarsi di “dominato”, l’inerenza a una relazione stabile di comando basata sulla soggezione.

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Ecco, questa è una prova lampante del fatto che il cervello, a furia di giochi di parole di scarso livello (come quelli delle pubblicità e di tanti comici e politici), smette di lavorare come dovrebbe e comincia a far giochi di parole anche dove non dovrebbe.

Ma peggio: ho il sospetto che l’autore qui non intendesse nemmeno fare un gioco di parole, visto che le virgolette non le ha messe solo a “dominato” ma pure a “principato”!

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Se guardiamo il processo di formazione delle parole, vediamo che Continua a leggere “Dominato?!”

Citazione: Il poeta comunica con il profondo di tutti gli esseri umani

Il poeta si distingue dal banale agit-prop perché, comunicando con il suo profondo, comunica con il profondo di tutti gli esseri umani. Non vuole persuadere ma svelare.

Un poeta africano ha parecchio da dire a un ascoltatore europeo, sudamericano o asiatico perché immergendosi nel profondo della sua anima, lì, nel fondo della sua essenza trova l’umanità intera.

Naturalmente vale anche l’inverso ed è per questo che i poeti vengono tradotti dai tempi di Omero.

LETTURE/ Solo di colore: Amanda Gorman e il razzismo degli antirazzisti, di Edoardo Laudisi, IlSussidiario.net 20 marzo 2021 

La Fata Turchina era blu?

La prossima volta che qualcuno dovesse contestare l’incontestabile fatto che l’eccesso di immagini deprime la capacità di produzione e comprensione verbale, potremmo portare questo esempio: la Fata Turchina di Pinocchio, di che colore era?

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Era una bambina col viso cereo e i capelli di colore azzurro scuro. Oggi qualcuno direbbe forse che erano blu (sbagliando).

Il fatto è che, ai tempi di Pinocchio il termine “blu” non si usava comunemente, era un francesismo da snob. L’ho appena scoperto su Wikipedia, che rimanda al Vocabolario di Fanfani del 1884.

Il Dizionario Tommaseo-Bellini (anteriore) non dice niente sul forestierismo – e Tommaseo non era uno da fare sconti in materia; ma è anche vero che questa particolare definizione non è sua – e ci presenta il blu come un termine tecnico, in un certo senso, e di derivazione tedesca:

BLU.

S. m. [M.F.] Specie di Colore che si avvicina al Turchino. [Tez.] Ted. ant. Blâo, Blaw. [M.F.] Blu chiaro, blu cupo o del re, nero blu, nero blu cupo, blu della regina, blu azzurro, blu Minerva, blu lapis-lazzuli, blu turco, blu turchino, blu Maria Luisa, blu oltremare. [Garg.] Celeste blu, Blu porcellana, Blu Isabella, Blu Napoleone. (Questi Blu, nell’arte e nell’uso, non s’intenderebbe a chiamarli Turchini.)

Se dice che, a chiamare “turchini” quei particolari colori non ci si capirebbe, vuol dire che il termine non corrispondeva al turchino propriamente detto, il quale era quest’altra cosa qui (l’ultima nota è proprio di Tommaseo):

TURCHINO

Agg. Di colore simile a quello del ciel sereno. Lo Scaligero, il Ducange, e altri, vogliono che sia così detto da’ Turchi, perchè vaghi di questo colore. Alcuni invece lo derivano dal celt. gall. Tuar, Colore, e Cuan, Mare, Tuar-cuan. Altri dall’essersi chiamato Turchino un marmo di quel colore, che veniva da’ paesi turchi. Fr. Turquin. [T.] Il color turchino è più cupo dell’azzurro, del ceruleo, del celeste.

Allora, se il turchino è il colore del cielo sereno ma è più cupo dell’azzurro, del ceruleo e del celeste, che accidenti di colore è? Un azzurro intenso, più scuro dell’azzurro normale del cielo. A naso, direi che è il colore di cui parla Dante nel primo canto del Purgatorio – dolce colore d’oriental zaffiro – ma questa è solo la mia idea. Di sicuro non è il colore del cielo di notte, che non è nemmeno blu ma è grigio.

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Oggi però il termine “turchino” è associato all’azzurro chiaro. Come mai?

Per via della Fata Turchina, dice Wikipedia.

Non ricordo che la Fata disquisisse di colori, nel libro. Mi pare più probabile che l’associazione sia nata da certe illustrazioni di libri e soprattutto dal cartone animato della Disney, dove la fata è una graziosa signora con abito celeste e capelli biondi, mentre la Fata originale è una bambina dai capelli turchini. Poi però c’è chi si ostina a pensare che l’eccesso di immagini non sia dannoso per le parole.

(Potrebbe anche essere che si sia fatta un’associazione turchino-turchese; parole-suono. Meno male che da ragazzina ho letto qualche romanzo di Liala e sui colori ho idee un po’ più chiare di così.)

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Un altro danno, ovviamente, è portato dallo spensierato conformarsi alle usanze linguistiche altrui.

Noi italiani, popolo di artisti e di tessitori, abbiamo sempre avuto molti nomi per indicare i colori, magari anche troppi, ma certo capisco che importare bleu dal francese potesse sembrare uno snobismo. Che però “blu” (meno male che “blè” non lo dice più nessuno) debba soppiantare i nomi delle altre tinte non è snobismo, è conformismo ignorante.

Quando ero bambina, sentivo ancora usare la parola “celeste”; i miei nonni materni, per esempio, avevano gli occhi celesti. Oggi non la sento e non la leggo più. Passi l’aver perso il gridellino, ma di gente con gli occhi celesti ne esiste ancora…

E uno che abbia gli occhi blu, in un romanzo inglese tradotto in italiano, di che colore li avrà in realtà? Il colore della genziana verna? (mi pare poco probabile), della campanula? (troppo viola), del nontiscordardime o della veronica? (già più probabile, ma noi li diremmo celesti, appunto; al massimo azzurro chiaro), degli zaffiri (che però vengono in varie gradazioni di azzurro, per non dir niente di quelli che azzurri non sono), o vattelapesca quale?

Ma per la lingua inglese sono tutti blue.

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L’articoletto di Wikipedia è molto interessante, c’è anche un esempio di turchino d’epoca:

Wikipedia: Turchino

È interessante anche un altro brano che prende le mosse da un libro di Michel Pastoureau (e indirettamente ci fa anche capire come mai Omero dicesse che il mare era color del vino; non è che i Greci antichi avessero coni e bastoncelli diversi dai nostri, era una questione lessicale):

BLU… storia di un colore oggi disciplinato e giudizioso, di Rames Gaida sul blog TRAMA E ORDITO.

Aggiornamento. Ho scritto di un azzurro normale del cielo. Mi sono ricordata però che una mia compagna di università siciliana diceva che il nostro cielo era pallido in confronto a quello delle sue parti. Quando sono stata a Malta, ho notato pure io che l’azzurro era più intenso, così come è più intenso quando si sale su un ghiacciaio di alta quota (ed è ciò che chiamerei turchino). Così, mi viene da pensare che a nord abbiano meno nomi per gli azzurri perché hanno meno tipi di azzurro. In effetti, quando Chesterton descrive i cieli, specie all’alba e al tramonto, usa colori che qui non si vedono spesso, come il verde pavone. A me è capitato una volta sola di vedere un verde nel cielo. Per noi sarebbe una perdita netta impiegare il solo termine “blu” al posto di tutti gli altri azzurri che abbiamo. 

Aragorn il Forestale

Ho passato anni a schivare le esegesi sul Signore degli Anelli: l’ho fatto con grandissima cura dopo che il romanzo è venuto di moda, specie tra cattolici. Ogni volta che vedevo la parola “allegoria” al di fuori dell’unica collocazione accettabile – che è “Il Signore degli Anelli non è un’allegoria” – mi ritrovavo sulle spalle un peccatuccio contro la carità fraterna, quindi si trattava di schivarle per la salute dell’anima oltre che per la noia.

Nei due mesi passati, mia sorella ha cercato di rendermi partecipe della diatriba sulla nuova traduzione di The Lord of the Rings inviandomi un paio di articoli. Sono riuscita a schivare anche quella. Dopo avere aperto uno di quegli articoli e averci trovato l’espressione “teoria della traduzione”, le ho risposto che erano tutti fuori come pennoni, al che la mia brillante congiunta ha compreso che non era aria.

Quando mi si tira fuori un sarchiapone come la “teoria della traduzione” (veramente si usa un altro termine per indicare una mostruosità inesistente, ma ora non mi viene; no, non è “chimera”), corro il rischio di farmi il sangue amaro pensando in quali mani e cervelli è finita la nostra povera amata lingua italiana. E pure il sangue, come l’anima, va tenuto bene.

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Ieri però un amico, beatamente ignaro delle mie annose fatiche, mi ha parlato della diatriba e di Aragorn il Ranger che diventerebbe “il Forestale”.

Questo è troppo anche per una tolkieniana di serena disposizione quale io sono.

Non mi interessano le questioni pseudo-intellettuali sul fatto che la vecchia traduzione sarebbe inadeguata, chissà poi a che cosa. Penso che le “teorie della traduzione” servano solo perché mediocri operatori culturali possano illudersi di incidere sulla realtà. Una brutta traduzione si può schivare come tutto il resto.

Ma qui non si tratta di una traduzione pedestre: si tratta della pretesa di sostituire un linguaggio con un altro, privandoci di un altro pezzo di realtà e della cultura che ne deriva. E una simile pretesa non è accettabile.

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Avete mai sentito parlare di “Walker il forestale del Texas”? No. Avrete sentito parlare, almeno in pubblicità, di Walker Texas Ranger. Ci saremmo piegati dal ridere se qualcuno avesse appiccicato a Chuck Norris l’etichetta di “forestale”; quasi quanto se l’avessero attaccata a Tex Willer. Anche Tex è un ranger del Texas ma quando mai ci verrebbe in mente di considerarlo un “forestale”… a parte che sta quasi sempre nel deserto?

Credo però che non sia chiaro perché ci saremmo piegati dal ridere.

Il perché è che il termine “forestale” riferito a una persona non è lingua letteraria, è gergo burocratico adattato alla lingua quotidiana.

Applicarlo a Chuck Norris o a Tex Willer sarebbe stato del tutto incongruo e perciò ridicolo. Ma il gergo burocratico, per quanto adattato alla vita quotidiana, non è più adatto alla narrazione epica che a quella avventurosa, così come non sarebbe adatto alla Bibbia. Solo che non riderei se uno di questi “teorici della traduzione” mettesse le mani sull’Odissea o, Dio ne scampi, sul Libro della Genesi. Non sarebbe più ridicolo, sarebbe tragico.

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Sostituire un linguaggio di carattere poetico come quello per cui Ranger divenne Ramingo (una soluzione che personalmente trovo geniale) con il linguaggio della burocrazia statale non è semplice ignoranza: è un crimine voluto contro tutti noi, contro gli italiani e contro la lingua italiana, oltre che contro l’autore. È un ulteriore tentativo per privarci della nostra lingua, dopo averci portato via il latino dei nostri antenati e della Chiesa. Tra vent’anni nessuno sarà più in grado di leggere Manzoni e Leopardi, per non dir niente di Dante e Boccaccio. Ma la cosa veramente triste è che nessuno ne sentirà la mancanza perché nessuno avrà idea di quel che si è perso.

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Penso che prossimamente mostrerò come funziona la traduzione di un termine come ranger. E non sarà “teoria”.