Economia quotidiana: latte e olio

Ha senso mettere insieme in piazza gli olivicoltori pugliesi e i pastori sardi?

(I quali in realtà sono allevatori, ma loro ci tengono a definirsi “pastori”; una cosa che m’ha sempre mandato in bestia, visto che sono figlia di uno di loro e ho passato anni a lavorare sull’economia agraria… Giusto per la cronaca, un pastore è servo di qualcuno, mentre i pastori sardi sono piccoli imprenditori. Devo riconoscere che essi utilizzano il termine nel suo significato originario di “colui che ha l’allevamento degli animali come principale occupazione” e non nell’accezione socio-economica moderna, ma non posso farci niente, mi manda in bestia lo stesso.)

Dicevo: ha senso ‘sto miscuglio?

No, non ce l’ha.

 

Gli olivicoltori pugliesi attraversano un periodo drammatico per via di calamità naturali: la Xylella e le gelate. Che abbiano bisogno d’aiuto – e da un bel po’ – è sacrosanto, ma non è il medesimo aiuto che serve ai produttori di latte.

I pastori sardi (e non solo loro) sono vittime dell’agricoltura industriale, non delle calamità naturali.

Sono vittime di calamità umane, tra le quali una mentalità schizofrenica per cui, da un lato, il cibo è “un dono della natura”, dall’altro lo si fabbrica come le automobili, tanto che a Bologna c’è il parco agroalimentare FICo, che vuol dire “Fabbrica Italiana Contadina”. Se vi sfugge l’assonanza con FIAT, Fabbrica Italiana Automobili Torino, temo che abbiate un problema, e forse due.

Sono due idee false e dannose (oltre che un segno di schizofrenia, visto che in genere sono possedute dalle stesse persone) perché alla fine hanno questa conseguenza: che migliaia di famiglie vengono prese per il collo da pochi industriali. Sto impiegando le parole di un pastore che ho sentito al tg poco fa. Casualmente è anche la mia esperienza di quando ero ragazzina ma questa è un’altra storia.

 

Il cibo non è un dono della natura, a meno che non amiate pascolare come vacche e somari.

Raramente il cibo è ottenuto tal quale dalla natura, come le more selvatiche; normalmente il cibo – inclusa la marmellata di more selvatiche – deriva dall’industria dell’uomo, cioè dalla sua capacità di applicarsi a modificare la realtà per renderla più adatta alle proprie esigenze.

Il cibo era un dono della natura quando i nostri antenati erano raccoglitori di cereali selvatici – già i cacciatori dovevano faticare e l’aspetto del dono forse gli sfuggiva – ma ormai sono circa diecimila anni che l’Homo sapiens sapiens modifica e seleziona ciò che la natura gli offre: per esempio, i nostri antenati selezionarono, tra i cereali selvatici, dono della natura, quelli che mantenevano le spighe intere e non disperdevano i semi, per poterli più facilmente raccogliere, trasportare, conservare e seminare. Poterono sceglierli grazie alla capacità di raziocinio, altro dono della natura, che poi è il modo con cui Dio agisce a livello di sistema. Ecco, il raziocinio, la ragione, chiamatela come vi pare, è un dono della natura che usiamo tutti i giorni. Il cibo no.

 

E tuttavia il cibo non si fabbrica come le automobili.

Se date lo stesso progetto, da seguire attentamente, e i medesimi materiali a dieci fabbriche di automobili diverse, esse produrranno la stessa automobile.

Provate a dare la stessa ricetta, da seguire attentamente, e i medesimi ingredienti a dieci cuoche diverse e vediamo se producono tutte lo stesso piatto. Certo, nominalmente sarà lo stesso, ma non sarà lo stesso nel mangiarlo. Altrimenti esisterebbero solo brave cuoche o pessime cuoche (vale anche per i maschi, vi prego di non sentirvi discriminati).

 

L’industria di cui parlavo poco sopra ha prodotto, in tempi recenti, l’industria nel senso delle fabbriche. Non è il contrario. L’industria dell’uomo, la sua capacità di trasformare la realtà tramite il suo lavoro, esiste da molto prima ed è una delle cose che fanno toccare con mano a un uomo la sua dignità di uomo e non di somaro (vale anche per le donne, solita storia, homo in latino indica l’essere umano e “uomo”, quando è usato in un certo modo, anche). Siamo subcreatori, per dirla con Tolkien, e non solo di storie.

Levate all’uomo la possibilità di trasformare la realtà per starci dentro meglio e gli avrete levato la dignità. A questo si ribellano i pastori sardi, non semplicemente al prezzo miserevole e ladronesco. Se anche vogliate vederla come semplice questione economica, comunque, non è una calamità naturale quella che li fa protestare, ma una calamità umana.