Perché è preferibile “gestazione per altri”

Io sono una donna. L’idea di usare una donna come una vacca da riproduzione mi disgusta, comunque lo si voglia chiamare.

Mi disgusta vagamente anche il fatto che siano pronti a difendere una simile pratica molti di quelli che storcono il naso all’idea di donne che, in passato, facevano dieci o dodici figli: di queste donne direbbero proprio che venivano trattate come vacche da riproduzione. Solo che quelle donne, in molti casi, erano contente di essere madri di molti figli e poi nonne di molti nipoti, mentre le donne che si prestano a farsi ingravidare per altri, in genere, prendono soldi, e magari sono tanti rispetto alle condizioni dei loro Paesi, ma dubito che si possano definire contente.

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L’espressione “utero in affitto” è icastica e insieme precisa, perché delle fattrici interessa principalmente un organo, il resto viene curato solo perché non si può separare l’utero dall’insieme del corpo; quando ero ragazzina, si parlava di “bambini in provetta”, però a un certo punto ci vuole comunque un utero, quindi tanto vale saltare la provetta…

Nel nostro mondo, sfibrato dall’eccesso di immagini, è quasi inutile servirsi di un’espressione icastica, perché non suscita reazioni se non in chi ci è già propenso. Di conseguenza, trovo che sia preferibile l’espressione non icastica ma altrettanto precisa  “gestazione per altri” (o GPA, secondo la mania delle sigle che ci ammorba quanto le immagini).

Perché è preferibile?

Semplice: perché, oltre ad essere sfibrato dalle immagini e maniaco delle sigle, il nostro è anche un mondo di nominalisti. E i nominalisti, contro questa idea di “affitto”, usano l’argomento della volontarietà.

Effettivamente, la gestazione di un figlio per qualcun altro non è detto che sia per forza a titolo oneroso: la prima volta che mi capitò di sentirne parlare era in alcuni episodi di Friends – una vita fa! – dove una delle protagoniste si faceva ingravidare a beneficio del fratello e della cognata che non potevano concepire.

In secondo luogo, ogni persona è libera, almeno in teoria, di disporre di sé come meglio crede. E come fai a dimostrare che una donna è stata usata come fattrice contro la sua volontà? Non puoi.

In genere non è dimostrabile perché non è vero: le donne che si prestano alla GPA lo fanno perché sono povere e i soldi offerti sono una bella sommetta; allo stesso modo tante donne si prostituiscono perché sono povere. Come fai a dimostrare, in entrambi i casi, che la loro volontà non era coinvolta? Potevano rifiutarsi e mendicare, no?[1]

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Non potendo dimostrare la non-volontarietà, se uno si vuole opporre a questa devianza deve farlo sulla base dei fatti. Il nome di questo particolare fatto è “gestazione per altri”, che comprende sia le prestazioni a titolo oneroso (“utero in affitto”) sia quelle gratuite.

Una volta stabilito il nome, si discute.

Trattare una donna come una vacca da riproduzione va bene o no? Io dico di no. E non va bene per le ricche come per le povere: riguarda l’essenza della donna, non lo stato socioeconomico. Siamo in ritardo di vari decenni nel combattere questa pratica terribile, Friends docet (quando certe cose arrivano nei telefilm, vuol dire che nella realtà esistono già da un po’).

Esiste un diritto ad aver figli? No, non è mai esistito. Casomai esisteva il dovere di farne; la tassa sul celibato non l’inventò “il por Benito”, ma un qualche legislatore greco dell’antichità.

Esiste anche una spinta a farne, perché quello è il modo più semplice con cui esercitiamo la nostra natura di subcreatori: per questo, le coppie senza figli spesso sono tristi e si sentono insoddisfatte. (La gestazione per terzi si effettua principalmente a beneficio di coppie formate da un uomo e una donna, che dovrebbero essere feconde ma non lo sono e quindi si sentono incomplete; anziché accettare il sacrificio, preferiscono commettere un’ingiustizia.)

E via discutendo.

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[1] C’è chi lo fa: quando vedete una zingara che chiede l’elemosina, be’, potrebbe essere una donna che va a mendicare per non prostituirsi; e dietro di lei c’è un marito o un padre che, pur di non farla prostituire, la manda a mendicare. Antonio Moresco riporta un episodio del genere nel libro Zingari di merda (Effigie, Milano, 2008; disponibile online un pdf senza foto): «Dumitru vive in Italia da undici anni. Prima stava a Milano, al Triboniano, nel campo vicino al Cimitero Maggiore, ma poi è andato via perché – così dice- là tirava una brutta aria, erano troppo cattivi, se stavi lì dovevi per forza adeguarti se no erano guai. Prostituzione, spaccio… “Ma io non ero venuto in Italia per mettere le ragazze in strada. Se volevo fare quello non venivo in Italia con la famiglia.” Allora è finito nei ruderi della Snia. È uno dei primi a essersi accampato là, allora c’erano ancora i marocchini, poi sono arrivati gli zingari, ma anche rumeni poveri delle ultime ondate migratorie. Sua moglie va a chiedere l’elemosina, lui ha fatto il manovale nell’edilizia, il mungitore. “Sono un bravo mungitore” ci tiene a dire». Da quando ho letto questo libro, non posso non guardare con simpatia le mendicanti. A volte, se ho qualche soldo nel bancomat, le accompagno a fare un po’ di spesa.